Michaela Sebokova
IL MOSTO DI BACCO
C'era un vecchio zoppo, sopranominato Bacco. Dai tempi remoti faceva guardiano dei vigneti e delle cantine, scavate nel tufo.
Viveva lassù in una capanna, passava le sue giornate nei vigneti e nella sua cantina, raccoglieva i funghi, i lamponi e le more, e prendeva le starne e le lepri nelle trappole.
Stava da solo nel suo paradiso, indisturbato dalle autorità locali. Si raccontava che avesse preso parte in prima guerra, e che le atrocità subite lo mandarono fuori testa. I bambini erano convinti che avesse una gamba di legno, e nessuno li smentiva. Era in continua agitazione, forse perché fumava le sigarette fatte da lui con le foglie di mais e corteccia delle vecchie viti.
Da quando era cominciata la seconda grande guerra, era sempre pronto con il suo bastone robusto, e aspettava pazientemente il nemico per fargli la pelle e per fargli pagare anche tutti i torti subiti nella guerra precedente.
Il vecchio aveva un piccolo cane meticcio, Dik, che era rimasto con lui dopo una vendemmia, dimenticato dal padrone oppure per la sua libera scelta, nessuno se lo ricordava più. Dik seguiva Bacco ovunque questo andasse e li teneva testa in mangiate e bevute (si sussurrava che il cane preferisse il vino rosso a quello bianco, ma suonava assurdo e poi nessuno l'aveva mail verificato di persona).
Era l’autunno del 1944. Maturarono le mele, quelle rosse striate di giallo, profumate e dolcissime. E poi fu la volta della vendemmia di quel vino bianco, aspro, che diversi uomini coraggiosi e poco pretenziosi coltivavano sulle collinette di tufo.
Dopo la vendemmia arrivò finalmente il tanto atteso periodo di burčák, il mosto prodotto secondo le procedure tramandate da generazioni. Il vecchio aspettava il momento giusto con una devozione assoluta. Passava la notte e il giorno nella sua cantina di tufo, senza mai allontanarsi. Teneva il mosto sotto stretta osservazione, finché non raggiungeva il perfetto grado di maturazione, colore del torrente in piena e il sapore rotondo, punzecchiante, divino. Il mosto perfetto doveva essere bevuto quanto prima, o meglio subito, e ancora meglio se in compagnia di amici e intenditori.
Quell’anno il vecchio aspettava gli amici-bevitori invano. La maturazione del mosto stava arrivando con la velocità esponenziale al suo culmine. Il vecchio ogni tanto usciva tutto agitato davanti alla cantina, in alto sulla collina, e scendeva con lo sguardo fino all’orizzonte. Infine, al posto dei viticoltori in arrivo, vide una sola figura avanzare nel caldo sole del pomeriggio.
Un uomo solo, magro, vestito di nero: il parroco. Il vecchio attese spazientito che il prete salisse fino a lui. Poco propenso a rispettare il suo abito, sbuffò:
“Siete venuto fin qui per dirmi che devo andare in chiesa?”
Il parroco, viso arrossato per la fatica, le macchie di sudore sulla schiena e sotto le ascelle, distolse lo sguardo e disse stancamente:
“I partigiani ci hanno avvertito che ci saranno dei bombardamenti stanotte. Che prenderanno di mira la collina. Venite con me nel paese, ve ne prego.”
“Già, la pecora smarrita che ritorna nell’ovile, che trionfo che sarebbe per voi! Scordatevelo, io e Dik rimaniamo qui, con il nostro mosto. E se nessun altro mi raggiunge, quando arriva il momento, me lo degusterò tutto da solo!” Il vecchio si girò bruscamente, strinse più forte il bastone, chiamò Dik e se ne tornò nella cantina.
Vennero trovati entrambi lì, due giorni dopo. Il crollo della volta lasciò intatta la botte con il mosto e fu clemente con il vecchio: il corpo irrigidito rimase seduto in una posizione d’attesa, sotto la barba un accenno di sorriso, lo sguardo spento rivolto verso l’amato mosto in fermento.
Il vecchio Bacco venne seppellito in un angolo del suo vigneto. Come usava una volta, accanto il corpo consunto adagiarono il suo bastone, il corpicino del fedele cane e ai piedi una damigiana di mosto. Di quel mosto, che nell’autunno del 1944 non fu mai assaggiato.
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