cucinare sano e facile
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Michaela Sebokova

QUELLA VOLTA AL FIUME

 

 

Arrancavo tutto sudato lungo il fiume. Gli scarponi producevano un rumore snervante sulla ghiaia, shkrr - shkrrr, inutilmente cercavo di procedere piano. Il cagnolino di nome Robin, un setter di cinque mesi, stava furiosamente perlustrando i cespugli sulla riva in ricerca di un fagiano. Lo lasciai fare. Era troppo inesperto, troppo giovane, troppo non quel Blu che ho pianto solo qualche settimana fa. Pazienza, mi ripetevo, il cane ha bisogno del suo tempo per diventare bravo, non è né il primo né l’ultimo che devo addestrare.

Buttai il fucile sulla spalla e mi sbottonai un po’ la camicia. Una giornata così calda, a metà settembre! Con la coda dell’occhio notai una macchia colorata, lassù, sull’argine. I lamponi. Allungai il passo e mi arrampicai fino ai rovi. Robin mi seguì, entusiasta.

Adoro i lamponi. Ne sento l’odore come un maialino sente quello del tartufo. È l’unica cosa che mi può distrarre durante la caccia. Cominciai a ripulire il rovo. Una manciata a me, un’altra a me, una al cane. Sembrava apprezzasse. Gli sorrisi compiaciuto. Avevo trovato qualcuno con cui condividere le mie passioni, quella della caccia e quella dei lamponi.

Chissà come, forse perché ero contento, mi passò per la mente di portarne a casa. Mi misi a cercare una bella foglia di bardana per usarla come contenitore. La arrotolai e cominciai ad adagiarci i frutti. Uno a me, uno a Robin, uno nel cono.

Mio figlio Gianni era fuori casa, a una gita con gli amici, non sarebbe tornato prima dell'indomani sera. Rebecca, la figlia piccola, avrebbe trovato un motivo per non mangiarli, i lamponi. Perché erano rossi, o perché c’erano i semini, o semplicemente perché erano buoni. Le cose buone erano proibite. Velenose. Odiose. Detestabili. Da evitare. Da rifiutare. Da calpestare. Solo così si diventava alla moda, e belle, e slanciate. Sinonimo di anoressiche. Dove stavamo andando a finire se le ragazzine non mangiavano più i lamponi? Scossi la testa.

E poi, mia moglie, la rispettabile signora Perlazzini, non li avrebbe mangiati mai. Perché li avevo portati io. Quello che toccavo con le mie mani era contagiato. Queste mani che lavoravano ottanta ore a settimana perché il figlio potesse avere il motorino più accessoriato, la figlia potesse andare al mare con le amiche e perché la moglie potesse sfoggiare in chiesa la pelliccia più chic che ci fosse al negozio.

Le mani schifose, le mie. Piene di calli, di tagli e di bruciature. Il metallo rovente non perdona. Pure c’erano stati tempi in cui queste mani pensavano di poter carezzare. Ora andavano bene solo per portare i soldi a casa. Mi venne la bile in bocca. Rovesciai il cono in un gesto di frustrazione. I lamponi, scuri, succosi, si spiaccicarono sui sassi. Il cane si mise a leccarli. Poi si fermò e mi guardò. Tutto bene? chiedeva con quel suo sguardo cagnesco, attento, partecipe. «Eh, Robin, non ti preoccupare, amico, è tutto a posto» gli dissi e gli carezzai la testa setosa.

Guardai giù, verso il fiume. Individuai il percorso che avrei seguito una volta raggiunta la riva, a zig-zag tra l’acqua, i cespugli e l’argine. Impugnai il fucile, chiamai il cane e cominciai la discesa. Robin mi precedette, si tuffò in un cespuglio che ci chiudeva la strada. Lo seguii, neanche tanto scocciato di dovermi infilare nel groviglio dei rami. Faceva parte del gioco, insieme al sudore, alla fatica. Solo io e il cane. E la natura.

La natura, sì. Ecco che scostando i rami, attento alle vipere e guardandomi sotto i piedi, andai a sbattere dritto contro un alveare di calabroni. Istintivamente serrai la bocca per non ingoiarne qualcuno. Non mi sarei mai aspettato un attacco di tale ferocia e velocità. Me li trovai dentro la camicia, furiosi, pungenti. Cominciai a picchiarmi sul petto; l’uomo preistorico dentro di me gridava: “Ammazzali, ammazzali!” e io obbedivo. Uscii barcollando dal cespuglio, mulinando le braccia e agitando il fucile, con la voglia incontrollabile di sparare, di spararmi, purché smettessero.

Sentii qualcuno urlare selvaggiamente, a lungo, un ululato da licantropo. Mi voltai, c’era solo il cane che abbaiava, vedevo la sua bocca a muoversi e il corpo sussultare. Mi resi conto che ero io quello che stava urlando, che stava piangendo. Un dolore disumano mi si stava diffondendo nel corpo. Mi contorsi e mi piegai, senza mai mollare la presa sul fucile: era l’unico ancoraggio alla realtà offuscata.

Devo aver corso per qualche metro, perché mi ritrovai fuori dai cespugli, seduto sui sassi. Stavo gemendo. Il fucile in grembo – mi resi conto in un lampo di lucidità – era senza la sicura. Avrei potuto sparare, uccidere, senza neanche rendermene conto. Le fasce fluide di dolore mi esplodevano nelle vene. Mi toccai il petto pieno di punture e le dita sfiorarono la tasca della giacca. Lì dentro c’era un telefono cellulare. Un telefono. Pronto soccorso. Medico.

Con le dita quasi insensibili sfilai il telefonino. Bene, ci siamo. Ora il numero. Com’è il numero? E poi, numero di chi? Piansi amaramente. Stavo per morire, con un telefonino in mano, senza sapere a chi chiedere il soccorso.

All’improvviso mi ricordai. Il dottor Balestri. Aveva un numero così buffo. Tipo 778899. Oppure 789789? Mi pulii il viso con la manica della camicia. Mi concentrai, fissai il telefonino e recitai una breve preghiera. Con l’indice digitai lentamente i numeri. 778899. Numero inesistente. Provai 789789. Numero scollegato. Appoggiai la faccia sulle ginocchia, e piansi ancora. Digitai 798798. Stava suonando. Rispose il dottor Balestri: «Pronto?»

Cercai di dire qualcosa, ma la lingua non mi obbediva. Se ne stava lì in bocca, grossa e molle come un inutile mollusco.

«Pronto?» ripetè la voce del dottore.

«Eh.» Riuscii a pronunciare un suono.

«Chi parla?» Il dottore era spazientito. Forse pensava che fosse uno scherzo. Per paura che potesse abbassare il telefono, la mia lingua-mollusco riuscì a spingere fuori dalla bocca: «Sono il Perlazzini.»

«Gino, sei tu?» cercò di capire il dottore.

«Calabroni, mi hanno punto» dissi malamente.

«Dove sei?» volle sapere lui.

«Giù al fiume» risposi. Mi sentivo svenire. Presto! sussurrai, o forse lo immaginai solamente. «Senti, Gino, con i calabroni non si scherza. Se dopo cinque minuti sei ancora vivo, va' direttamente al pronto soccorso più vicino. Mi hai capito?»

Pensavo di non aver udito bene. Quel farabutto di dottore mi stava davvero informando – come se niente fosse – che avevo solamente cinque minuti di vita? Volevo mandarlo al diavolo, ma una nuova ondata di sofferenza mi raggiunse e il telefonino mi scivolò dalle dita.

Passarono i primi terribili secondi. Il sangue scorreva dolorosamente nelle vene, sangue avvelenato, portatore di morte. Cercai di non pensarci. Di concentrarmi sulla respirazione. Inspira, espira. Inspira, stronzo! E ora espira. Ogni boccata era più dolorosa della precedente. Prima di morire, però, alcune cose vanno fatte. Raccolsi le forze, recuperai il telefonino caduto per terra e digitai il numero di casa. Questo era facile: 722333. Non potevo morire senza dire addio a mia moglie, ai miei figli.

Il telefono squillò diverse volte prima che mia moglie sollevasse la cornetta.

«Pronto?» La sua voce era aspra, con la “o” finale tendente all’isterismo. Tuttavia, in quel momento mi sembrava quasi dolce.

«Tittina» dissi con la voce rauca. Il vezzeggiativo che pensavo del tutto dimenticato mi salì sulle labbra dopo quindici anni di disuso.

«Senti» tagliò dura lei, e la vidi chiaramente accanto alla credenza: la mano sinistra stretta in pugno e appoggiata sul fianco, la bocca tirata in una linea sottile e pungente come la spina di un cactus. «Lo so che sei lì a letto con qualcuna e che mi avete chiamato solo per poter ridere di me. E non inventarti che sei a caccia, tanto non è vero!» La voce salì di due ottave, il “non è vero” era già strillato e mi perforò quasi il timpano. Volevo replicare, spiegare, ma prima che avessi convinto il mio cervello a formulare una frase qualsiasi, lei aveva già buttato giù.

Allora niente addii. Ero stranamente sollevato. Anche se davvero avrei voluto sentire per l’ultima volta la voce della mia figlia. Ma i miei figli non mi rispettavano più, mia moglie non mi amava e non mi rispettava neanche lei. Riuscivo a strapparle un sorriso solo quando posavo i soldi sul tavolo. Avrebbe dovuto sposare un bancomat, lei. E i ragazzi purtroppo crescevano a sua immagine. I valori di una volta erano rimasti appunto di una volta.

 

Decisi che non sarei morto per terra come un animale e mi trascinai su un ciocco portato lì dall’ultima piena. Il pezzo era già segnato: qualcuno l’aveva trovato e ci aveva poggiato sopra una grossa pietra. Prima o poi sarebbe tornato al fiume per recuperare la sua legna. Con un’intensità folle sperai che venisse proprio in quel momento, che mi trovasse lì e mi portasse all’ospedale. Mi sedetti sul tronco e mi appoggiai ai rami contorti come se fosse una poltrona. Troncai il fucile e lo adagiai ai piedi. Robin si accovacciò vicino, mi osservava preoccupato. Gli sorrisi, ma subito il sorriso si trasformò in una smorfia. Mi raggiunse un’altra ondata. Sentivo il corpo fondersi, diventare fluido, incandescente, tanto la percezione del dolore andava oltre l’immaginabile. Davanti agli occhi vidi il volto di mio padre, e poi quello di mia madre. Figlio unico, non volevo lasciarli soli, non me l’avrebbero mai perdonato. Io che non avevo mai pianto versavo le lacrime come un neonato. Io che non mi ero mai lamentato ora invocavo l’aiuto di Dio e di tutti i santi. Tutto invano.

Perché dopo ero morto. Lo sapevo di sicuro perché c’era Blu e Blu era morto poche settimane prima. Ora eravamo morti entrambi. Non era poi così male. C’era il sole, si stava al calduccio. «Blu, vecchio mio, allora come vanno le cose qui?» chiesi al mio fedele setter, dandogli due pacche sulla schiena. «Ti sei rimesso, le anche non ti fanno più male, sei veramente in forma. Mi fa tanto piacere, sai?» continuai a parlargli mentre il cane stava fermo con la testa poggiata sul mio ginocchio e mi fissava negli occhi. «Pure, Blu, hai le macchie in qualche modo confuse. Ti è successo quando sei venuto qua?» Lo guardavo strizzando gli occhi nel sole forte, e arrivai alla conclusione che la disposizione nuova delle macchie color ruggine non gli stava poi così male. «Eh, non ti offendere, amico, ti giuro che stai bene anche così! Ma guarda qua, hai cambiato anche il collare? Questo però non è tanto carino da parte tua!» Gli carezzai le orecchie, il muso. Sentivo il braccio pesante, come se mi muovessi nel miele, ma doveva essere l’effetto dell’aldilà. E poi all’improvviso il buio. Buio totale.

 

Una cosa umida e calda mi stava solleticando la mano. Aprii gli occhi, il sole ancora alto m'infiammava le palpebre. Ero sempre morto, ma adesso lì vicino c’era il mio fiume e Blu mi stava leccando il braccio abbandonato lungo il fianco. «Vecchio mio, vieni qui, vieni» lo chiamai sottovoce. Il cane si avvicinò, salì sul tronco con le gambe anteriori e mi leccò il viso. Alzai il braccio e mi parai gli occhi dal sole. Avevo la bocca secca, piena di quella lingua-mollusco; il dolore torvo sembrava essersi stabilizzato appena sotto la soglia di sopportazione.

Sfiorai il cagnolino, mi tirai un po’ su. Una mosca stava ronzando lì vicino e si era alzato un venticello. Girai la testa, grato per il rinfresco, e in quell’istante realizzai di non essere morto. Lo capii chiaramente perché il cane con le macchie spostate non era il vecchio Blu, bensì Robin. Riuscivo a leggere il suo nome sul medaglione appeso al collare nuovo: R-O-B-I-N. Mi colse il dispiacere per Blu, così definitivamente morto e perso per sempre. Subito però fui pervaso da una voglia furiosa di vivere, di respirare, di vedere il sole e il fiume e le nuvole. Abbracciai goffamente il cane. I suoi occhi mostrarono sorpresa per questa insolita manifestazione di affetto e mi si tuffò in grembo. Il suo salto mi risvegliò un bruciore lancinante nel petto: i pungiglioni dei calabroni erano ancora lì, ben piantati. Scostai delicatamente il cane. Sfilai la camicia dai pantaloni e feci cadere per terra setto o otto corpicini morti. Erano quasi belli.

Mi alzai. Annaspai, sembrava che il cielo mi stesse cadendo addosso. Il cuore batteva veloce, pompava quel sangue quasi avvelenato con un’allegra forza che mi fece ridere. Risi come un folle, come un superstite, come uno che aveva toccato l’inferno e a cui era stato concesso di tornarsene via. Non dando più ascolto al dolore, presi il fucile, chiamai il cane e mi avviai a testa alta e passo incerto verso la mia seconda vita.

 

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