cucinare sano e facile
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La lingua del cuore

            È stata la prima ad accogliermi con un abbraccio affettuoso quando Gino mi portò a casa sua, in Italia, e mi presentò come la sua sposa: una sposa inattesa, per di più straniera. In realtà era la bisnonna di Gino, ma tutti la chiamavano Nonna. Aveva il viso rugoso e le mani asciutte piene di nodi. Il rispetto per la sua età era troppo grande: non potevo darle del tu come i suoi pronipoti, neanche del lei come i suoi nipoti. Le davo del voi come facevano quelli dei suoi cinque figli che erano ancora in vita. Come facevo io da piccola con mia nonna materna, chiamata Mama.

            Da quando avevo conosciuto Nonna non facevo altro che paragonare le due donne, così diverse, così simili: Nonna e Mama. La prima parlava un gentile dialetto toscano, la seconda un ruvido dialetto ungherese. La prima ancora a novant’anni andava su per i poggi a cercare le erbe spontanee, la seconda soffriva di cuore e ci lasciò pochi giorni prima del suo sessantesimo compleanno. Nonna partorì e allattò il secondogenito sotto i bombardamenti; Mama crebbe quattro figli in un paese comunista, diffidando di tutto e di tutti.

            Per sfamare la famiglia Nonna cucinava la minestrella con le erbe di campo e la polenta con il salacchino, Mama ripiegava sullo spezzatino di patate o sul semolino cotto nel latte e condito con il cacao.

            Entrambe detestavano lo spreco, non buttavano mai niente, perché tutto poteva essere in qualche modo utile, e quindi riutilizzato, adattato, riciclato. Cucinavano in grandi pentoloni i minestroni e gli spezzatini, mettevano via i sottoli e sottaceti, chi per l’inverno faceva le scorte di farina di castagne, chi pressava nelle botti il cavolo per farlo fermentare. Entrambe impastavano ogni settimana il loro pane e lo portavano a cuocere nel forno del paese.   Spianavano la loro pasta fatta con un chilo di farina e la condivano chi con il sugo di magro, chi con il cavolo in umido, chi riempiva i tortelli con la ricotta, chi con la marmellata di prugne. Non facevano mai mancare il loro affetto ai loro cari, pur tenendo le emozioni sempre a freno, ben nascoste sotto gli strati dei vestiti. Né Mama né Nonna avevano mai messo i pantaloni, e non avevano mai fatto la ceretta. Le loro gambe sotto la gonna ampia davano impressione di essere due colonne, ferme e stabili, alle quali aggrapparsi in caso di bisogno: irradiavano sicurezza.

            Quando più di vent’anni fa Mama è venuta a mancare all’improvviso, non avevo subito realizzato l’entità di quanto era accaduto. La tristezza per questa perdita aveva cominciato ad avvolgere il mio cuore pian piano, anno dopo anno, strato dopo strato; e solamente dopo che avevo conosciuto Nonna e che mi ero affezionata a lei, mi ero resa conto che il lutto per la scomparsa di Mama era più vivo che mai.

            Mi mancano terribilmente le storielle che non aveva potuto raccontarmi, mi mancano le sue mani forti che tagliavano il pane appoggiando la pagnotta al petto abbondante. Sento la nostalgia dei movimenti con i quali tirava la pasta per lo strudel, pugni chiusi e il viso corrugato in un cipiglio di concentrazione, finché i bordi della sfoglia – estesa quasi quanto un lenzuolo – non scendevano obbedienti intorno al tavolo. Mi sembra ingiusto che non abbia avuto il tempo di insegnarmi come si facesse; la mia sfoglia si rompe sempre e non riesco a capirne il motivo.

            La cosa però di cui più sento la mancanza è il suo modo di parlare, il suo ungherese pieno di consonanti saltate e di vocali profonde: una lingua antica, non colta ma semplice e schietta come le persone che la parlavano. Mi è sempre piaciuta la saggezza popolare racchiusa nel suo proverbio preferito Ez van, ezt kell szeretni! che non è semplicemente l’equivalente di “O mangi questa minestra, o salti dalla finestra”; il proverbio ungherese consiglia di cercare un lato positivo nella “minestra” che non ci piace, letteralmente “Questo è ciò che abbiamo, bisogna farselo piacere”.

            Alla vigilia del suo centesimo compleanno, quando tutti erano presi dai preparativi della festa ed io ero incaricata di fare compagnia a Nonna, decisi di confidarmi con lei: pensavo fosse l’unica in grado di capire quello che sentivo. Mi ascoltò parlare, la voce soffocata dalla nostalgia per la persona cara che non avrei mai più potuto rivedere o abbracciare, e mi rispose in modo calmo, sommesso, in quel dialetto dolce che ho già imparato ad amare: “Oh cocca cara, sembra impossibile compì cent’anni… son tanti e ne ho viste di tutti i colori, belle e brutte! Più belle però, ho avuto giorni felici e giorni tremendi. Sai quali sono quelli che mi ricordo di più? I giorni quando sono nati i mii figlioli e i mii nepoti. Un c’è cosa più bella di un bimbo che nasce! Cinque nipoti e quattro pronipoti, tutti sani e bravi, il Signore mi ha fatto un regalo bello bello, e io lo ringrazio tanto.” Si soffermò un attimo, si asciugò gli occhi arrossati, poi riprese: “Vedi cocca, quel che volevo dire, che anche tu Mama sicuramente era felice con voi, e devi pensare a lei con gioia.”

            Dopo mi guardò e fece un po’ perplessa: “Ma, mi sembra di ricordà che tu sei slovacca…  come mai tu nonna ti parlava ungherese? Lo slovacco e l’ungherese son mica du dialetti della stessa lingua?”

            Rimasi stupefatta da quest’osservazione acuta. “No, non sono la stessa lingua; anzi: sono due lingue completamente diverse. Ma avete ragione, Nonna, Mama era ungherese, io sono slovacca.”

            “Allora tu sei slovacca perché la tu mamma ha sposato uno slovacco? Oppure avete traslocato in un altro paese?” non comprendeva Nonna.

            In quell’istante mi resi conto di quanto strano fosse questo fatto che avevo sempre dato per scontato. Forse quando si vive nel proprio paese d’origine, non si avverte tale bruciante desiderio di capire bene chi si è veramente, da dove si proviene: semplicemente vivi dove sei nato e non ti poni domande. Quando ci allontaniamo da casa, abbiamo un bisogno acuto di ricordare la nostra provenienza, le nostre radici, per non perdere il filo con il passato e con noi stessi. In quei momenti cerchiamo di “definirci” come se fossimo sottoposti a una TAC: “Chi sono io veramente?”

            Ci voleva Nonna, con i suoi cent’anni e con il suo dialetto come unica lingua che parlava, a pormi la domanda che io non avevo osato affrontare: “E quale pensi che sia la TU lingua madre?”

            Era una domanda semplice, almeno all’apparenza. Ma se la lingua di mia madre e di mia nonna era l’ungherese, perché io ero convinta che la mia lingua madre fosse lo slovacco? Era difficile spiegarlo a Nonna.

            Lei cercò di aiutarmi: “La tu lingua madre deve essere quella in cui preghi!”

            La dovetti disilludere, se pur malvolentieri: “Io non prego, Nonna, non sono credente.”

            Nonna mi guardò un po’ stranita, chinò la testa e cercò di digerire la notizia. “Hm, insomma… ” Ci ragionò un attimo. “Questa è facile: in quale lingua sogni?”

            “Oramai sono tre anni che vivo in Italia, e sogno in italiano…”, le risposi sempre più in difficoltà.

A quel punto indicò con il dito il mio ventre e disse pensierosa: “Allora quale sarà la lingua della tu creatura?”

            Non sapevo cosa dirle, non lo sapevo davvero.

            Già, non era facile. Tutti i miei ricordi d’infanzia erano legati alle tradizioni più ungheresi che slovacche. A Mama e alle sue vocali chiuse, al suo spezzatino di patate, alle borse che le sue dita tozze magicamente realizzavano con le foglie di mais. Avendo però frequentato le scuole slovacche, era QUESTA la lingua in cui mi esprimevo meglio. Lo slovacco era la lingua che amavo e valorizzavo, nonostante le radici della mia famiglia fossero ungheresi.

            E se la nostra lingua madre fosse quella lingua in cui le poesie ci arrivano direttamente al cuore? Io sono nata e cresciuta in Slovacchia, mio figlio nascerà e crescerà in Italia: amerà Carducci e Pascoli come io amo Hviezdoslav e Rúfus, il battito del suo cuore accelererà leggendo Petrarca come il mio accelera leggendo Sládkovič. Ma la mia lingua madre non è la lingua di mia madre, e la lingua madre di mio figlio non sarà la lingua di sua madre… la storia si ripete, e questo pensiero mi rende un po‘ triste. Non voglio che si perdano le tracce del passato, non voglio che mio figlio debba porsi la stessa domanda „Ma chi sono io veramente?“

            Passai una notte insonne, ragionando sull’importanza del senso di appartenenza. Appartenere a un luogo, a una cultura, sentire propria una lingua… Saremo per sempre quello che è stato scritto all’anagrafe, oppure nell’arco della vita possiamo diventare parte integrante di un’altra comunità, di un’altra nazione, quasi come se ci fossimo nati? Dobbiamo sentirci traditori se questo dovesse accadere?

            La sera successiva avvicinai Nonna, presi tra le mie mani la sua mano asciutta e leggera come l’ala di un pulcino, e le sussurrai: “Sapete, Nonna, io penso che esista un linguaggio universale che può essere capito da tutti, basta desiderarlo veramente: è l’amore verso gli esseri viventi che ci permette di comunicare con tutti, pur non avendo la stessa lingua madre.”

            So di certo che Nonna è d’accordo con me: mi aveva rassicurata che quando sarebbe arrivato il suo momento, avrebbe portato i miei saluti a Mama e le avrebbe detto quanto mi manca. E io sono sicura che Nonna sarà in grado di farlo, nonostante non parli per niente l’ungherese.

 

 

 

 

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